Barbara Schiavulli corrispondente di guerra:dalla parte delle vittime
“Essere parte del mondo è un privilegio”
dice Barbara in un suo podcast intitolato Sogni
e giornalismo per Radio Bullets “Essere parte del mondo significa
conoscerlo, gioirne, aiutarlo e dire no alla violenza, alla paura, alla
mediocrità e invece dire sì all’esserci, al contribuire, al non dimenticare e
al pretendere. Essere parte del mondo significa condividerne le sue meraviglie
ma anche arrabbiarsi, non accettare, darsi da fare, ognuno come può e come sa“.
Barbara l’ha fatto con il suo lavoro per vent’anni, raccontando le storie di
chi vive in contesti di guerra, per restituire un po’ di dignità alle vittime
sconosciute dei giochi dei grandi: “E’ stato nei posti peggiori che sono stata
travolta dalla dignità delle persone, dal loro coraggio e dalla loro
forza”. L’ha fatto da freelance,
senza mai riuscire ad essere assunta, nonostante abbia lavorato in modo
continuativo per anni per L’Espresso, L’Avvenire, il Messaggero e tanti altri:
“Nel 2005, in Iraq ero l’unica giornalista italiana che continuava ad andarci
quando le testate italiane avevano deciso di non mandare più nessuno. Ho
vissuto a Baghdad travestendomi da sunnita o sciita a seconda delle esigenze,
quando era importante non dare nell’occhio e troppo pericoloso per una
giornalista straniera andare in giro”.
Grazie al suo impegno e la capacità di
saper trasmettere vissuti ed emozioni con la scrittura, ha vinto numerosi
premi, tra cui il Premio Lucchetta (2007), il Premio Antonio Russo (2008), il
Premio Maria Grazia Cutuli (2010), il Premio Enzo Baldoni (2014) e recentemente
il Premio Speciale del Modena Buk Festival (2017). Ha pubblicato Le
farfalle non muoiono in cielo (La Meridiana, 2005), Guerra e
guerra (Garzanti, 2010), La guerra dentro. Le emozioni dei
soldati (2013) e Bulletproof diaries. Storie di una
reporter di guerra (Round Robin,2016), Quando
muoio lo dico a Dio (Youcanprint,2018)
Da qualche anno non riesce più a fare il suo
lavoro, se non con molta fatica e ci spiega perché. Ma partiamo dall’inizio di
questa avventura.
Come mai la
scelta di vivere a Gerusalemme per molte giornaliste di guerra?
Se vuoi imparare questo mestiere
Gerusalemme è il posto per eccellenza. Chiunque quando arriva sa già tante cose
su Israele e la Palestina, tra l’altro è una guerra che viene ancora studiata a
scuola; ti trovi in una situazione ideale perché puoi lavorare su un fronte o
sull’altro esattamente nello stesso momento quando invece in un conflitto devi
scegliere da quale parte andare per lavorare. E’ vero che il conflitto
Israele-Palestina è complesso ma dall’altra è semplice perché c’è uno Stato,
con tutto il suo apparato, contro una massa di persone impotenti ed impoverite
che vivono nell’apartheid. Un’altra ragione importante per stare a Gerusalemme
è che puoi trovare i grandi inviati di guerra delle tv del mondo, dei grandi
quotidiani, prima o poi passano tutti e se sei disposta a farti “adottare” ti
insegnano i trucchi del mestiere. E’ così che ho conosciuto Robert Fisk il
grande inviato del quotidiano The
Indipendent…ma soprattutto conosci i giornalisti palestinesi, bravissimi,
che secondo me sono dei veri e propri eroi. I giornalisti e i fotografi
palestinesi sono coraggiosissimi e io li seguivo per imparare da loro.
Quali
sono i risultati della tua carriera ai quali sei più affezionata, di cui vai
fiera?
Al di là delle interviste politiche che
non richiedono particolari abilità, certo non nascondo che fa piacere essere
stata la prima al mondo ad avere l’intervista con il neo eletto presidente
afghano, ma sono le imprese più difficili quelle che mi restano più care. Io
sono sempre onorata quando le persone mi accolgono nelle loro case e mi
raccontano le loro storie. Comunque la
cosa di cui sono più orgogliosa è di aver sempre portato a casa “il pezzo”! Di
essere tornata a casa ogni volta senza troppi danni! Di aver conosciuto delle
persone incredibili perché a volte la realtà supera la fantasia…
Oriana
Fallaci era affascinata dal potere e ha intervistato i potenti, i politici,
mentre la famosa corrispondente del Sunday Times Marie Colvin, morta proprio in
Siria, diceva che bisognava portare testimonianza degli orrori che i despoti
infliggevano alle popolazioni e non permettergli di passarla liscia, Barbara
Schiavulli ….?
Sono assolutamente d’accordo con Marie
Colvin, che fra l’altro ho conosciuto molti anni fa a Gerusalemme, bisogna dar
riconoscimento alle persone e alle loro storie. Io sono sempre a caccia di una
buona storia…penso a quella sopravvissuta di Auschwitz salvata da un medico
cristiano che la nasconde a casa sua rischiando la vita. Dopo la guerra arriva
in Israele con i genitori, s’innamora perdutamente di un ragazzo arabo ma le
famiglie osteggiano la loro unione. Fuggono lontano e poi si sposano. Per 50
anni solo il marito saprà che lei è un’ebrea sopravvissuta all’olocausto,
nessun’altro ne è a conoscenza, nemmeno i loro numerosi figli, vive per 50 anni
come araba musulmana. Un giorno arriva a casa sua un esattore delle tasse che
dopo un po’, incuriosito, le chiede come mai parli l’israeliano così bene.
Prima di rendersene conto gli risponde “Perché sono un’ebrea” e piange. Sentìì
questa storia da qualcuno che me la riferì a sommi capi e capìì subito che
sarebbe stata una bella storia da raccontare ma non avevamo molti indizi per
rintracciare l’anziana signora. Io e il fotografo girammo per ore chiedendo se
qualcuno la conoscesse e quando stavamo
ormai per rinunciare c’imbattiamo nel suo vicino di casa! L’anziana signora ci
apre la porta di casa, ci racconta tutta la storia e intanto che lei raccontava
arrivano una alla volta i figli e il marito che ancora la guarda con occhi
pieni di compassione. Anche se è una storia che ancora mi fa venire la pelle d’oca
nel raccontarla, feci molta fatica a venderla, alla fine trovai solo Famiglia
Cristiana interessata.
Qual
è la componente che prevale nella scelta di fare questo mestiere:
l’irrequietezza che porta a viaggiare o quella sorte d’amore misto a curiosità
per il mondo e la gente?
Penso ci siano diverse variabili, nel
mio caso prevale il senso di giustizia, un seme cresciuto in famiglia, al tipo
di esperienze che ho fatto con i miei genitori, in particolare con mia madre
che essendo americana di origini caraibiche, aveva vissuto il razzismo in
America. Ma anche l’aspetto del dare il riconoscimento
alle persone e alle loro storie, mi piace raccontare le emozioni che vivono le
persone, come reagiscono di fronte alle prove, alle sfide, al pericolo, alle
minacce cioè alle situazioni d’emergenza….ecco questo per me è importante.
Ho
letto questa tua affermazione “Mi sono spesso trovata al posto giusto nel
momento giusto” a cosa lo attribuisci? Forse perché sei una natural nel tuo lavoro?
Io credo che quando una fa il lavoro
giusto, o quello che crede sia il lavoro giusto, sviluppa probabilmente anche delle
percezioni, degli istinti…una sincronia con quello che sta attorno. Quindi
quello che succede è che ad un certo punto non sei più te che vai a caccia di
storie ma sono loro che ti cercano, e questa cosa mi piace, mi piace sapere che
vado in un posto e troverò sicuramente qualcosa, si, certo farò i pezzi che
interessano i giornali ma tutte “le altre storie” diverranno poi un libro, come
l’ultimo “Quando muoio, lo dico a Dio. Storie di ordinario estremismo”.
Poi ho avuto fortuna. La prima volta che
andai ad Haiti nel 2004, è scoppiata la rivoluzione…e io di certo non potevo
sapere che sarebbe successo, ero lì perché c’era una sommossa.
Giorgio
Bocca diceva che questo mestiere, quella del giornalista, ha poco a che fare
con il talento e molto più con l’essere un artigiano della scrittura, con la
cura, la pazienza, l’affinare il proprio strumento..
Come il falegname, ho sempre pensato a
questa metafora infatti. In realtà quando uno esce dalle scuole di giornalismo
pensa di essere “pronto”, di saper fare ogni cosa, invece il nostro resta uno
dei pochissimi mestieri, in teoria virtuali, che hanno bisogno proprio della
pratica. Io ho avuto la fortuna di essere tra le ultime di quella generazione
che iniziava dalla gavetta del giornale. Ho iniziato dal Gazzettino di Venezia,
dalla Cronaca Nera, dove ti mandavano a vedere, a bussare alle porte, a
prendere contatto, a dare fastidio se vuoi. Questo è un mestiere che ha molto a
che fare con il contatto con le persone, a meno che tu non faccia il
giornalista investigativo, giudiziale, che deve invece avere a che fare con le
carte, i documenti da “interpretare”, da sapere leggere tra le righe. Invece
fare l’inviato comporta muoversi….camminare.
Come
mai non hai tanto frequentato la Siria?
In realtà ci sono stata prima dei
conflitti e una volta durante…il fatto è che questo conflitto è scoppiato nello
stesso momento in cui è scoppiata anche la crisi del giornalismo; non trovavi
più giornali che ti pagavano i mille euro a pezzo, necessari per pagarti le
spese! Ho avuto amici che non sono più tornati, a cui hanno tagliato la
gola. Il problema è stato che i freelance hanno incominciato a lavorare
per ottanta euro e hanno rovinato per sempre il mercato. Ho spiegato che cosa è
successo in dettaglio in un articolo pubblicato sulla piattaforma di
giornalisti “Valigia blu” dove parto dal 2010 quando è iniziata per tutti la
crisi [nel giornalismo], inesorabile, in tutto il mondo, non solo in Italia. Da
noi le testate hanno fatto una scelta diversa dai loro colleghi all’estero che
hanno continuato a trattare le notizie internazionali con la stessa qualità di
sempre ma hanno decurtato gli inviati, da venti a cinque, per dire. In Italia
hanno fatto l’esatto opposto: meno notizie e meno soldi per tutti. La selezione
naturale ha fatto si che a continuare è solo chi è ricco di famiglia. Il
risultato è che io mi sono trovata a non lavorare più per i giornali italiani,
perché rifiuto questi compensi.
E’
per questa ragione che è nata Radio Bullets?
Tre anni fa, ci fu un attacco a Gaza,
gli israeliani bombardavano pesantemente, e io saltavo nel divano dalla voglia
di andarci, vedendo che in Italia nessuno copriva i fatti da dentro i territori
se non il corrispondente del Manifesto, presa dalla rabbia scrissi su FB le
notizie, una ad una, che non venivano date dai giornali italiani. Non si
parlava più di Afghanistan né di Iraq, ad esempio, così scrivo le trenta
notizie che non apparivano nei quotidiani italiani. Esplode un caso! La pagina
FB ha una grande visibilità. Vengo contattata da una giornalista investigativa,
Alessia Cerantola, che copre il Giappone e mi offre la sua collaborazione, così
insieme andiamo avanti per un po’ finche non decidiamo di fare ogni giorno un
podcast delle notizie. Studiamo come si fa e da allora ci alziamo ogni giorno
alle cinque per leggere i giornali internazionali di cui ci fidiamo, abbiamo
poi i nostri contatti sul luogo, e una volta selezionate le notizie che ci sembrano più interessanti,
prepariamo il notiziario.
Ad un certo punto incominciamo a venir
contattate da altri giornalisti che si trovano in giro per il mondo, chi in
India, chi in Sudafrica e ci chiedono di poter collaborare. Vedono nella nostra
pagina un punto di riferimento nel vuoto che si è creato in Italia. Ci
registriamo come pagina giornalistica perché da due che eravamo siamo diventate
venti, quasi tutte donne e incominciamo a strutturarci. Nel tempo qualcuno/a
viene assunta dai giornali, qualcuna/o se ne va, altre ne arrivano. Ora siamo
stabili una decina, tutte donne- i maschi non sono costanti- siamo rimaste solo
noi a tener duro… e stiamo creando un’associazione culturale per poter accedere
ai bandi europei. Proprio adesso abbiamo lanciato sul sito della radio, una
campagna per raccogliere fondi; vogliamo creare una rete di sostenitori che ci
segua, abbiamo già una piccola comunità di fedelissimi ma vogliamo ampliarla e
portarla a mille!!!!
Radio
Bullets quindi come funziona?
Siamo in tre a fare il notiziario
durante la settimana, io assieme a Cecilia Ferrara che copre i Balcani, una
giornalista che sta a Lipsia, Paola Mirenda esperta di Africa e copre anche
l’Europa. Poi ci sono tante rubriche come Geocinema, il cinema geopolitico, “MondoRoma” che parla
degli stranieri…abbiamo un “Notiziario Kids”, una rubrica poetica
“Cardiopoetica”…
Il
tuo ultimo viaggio?
E’ stato in Venezuela, l’anno scorso,
anche se non sono un’esperta di Sudamerica, ho voluto andarci perché trovavo
scandaloso che nessuno ne parlasse quando invece stavano succedendo cose
gravissime. Mi sono fatta accompagnare da una giornalista venezuelana,
bravissima! Ho fatto una campagna di crowdfunding
su indiegogo per poterci andare. La
gente si suicida perché non ha i soldi per comprarsi le medicine...la
situazione è talmente drammatica che appena scesa dall’aereo dopo pochi minuti
sul suolo venezuelano ho visto una persona gettarsi da un ponte!
In Italia c’è una grandissima comunità
di italo-venezuelani, sono estremamente generosi, tra tutte le comunità in
Europa sono quelli che inviano più medicine nel loro paese. Quando ho parlato
di Venezuela sul notiziario di Radio Bullets, gli ascolti sono andati alle
stelle e da allora vengo spesso invitata da loro a parlare di quello che ho
visto in Venezuela, ad esempio questo weekend sarò in Trentino. Se con la radio
riuscissimo a coprire gli Esteri, così come abbiamo fatto con l’ultimo viaggio
in Venezuela, questo da solo ci farebbe aumentare gli ascolti e farebbe
decollare la radio. Riponiamo molte speranze sulla campagna di raccolta fondi…
è l’ultima possibilità che ci diamo dopodichè, non so cosa farò”.
Per sostenere Radio Bullets e il diritto
di sapere e di conoscere il mondo vai al loro sito e contribuisci con una
donazione.
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