Afghanistan, il tam tam solidale che si è diffuso per iniziative di sostegno alle donne afghane
ROMA - La società civile delle donne, il lunedì dopo Ferragosto ha reagito senza indugio alla notizia della presa di Kabul per mano dei talebani, da quel momento liberi di imporre il loro ordine sul paese. In Italia, ma non solo, in gran parte del mondo occidentalizzato, le donne hanno reagito animate dalla preoccupazione per la sorte delle donne e dei bambini afgani, dallo sdegno per il ritiro precipitoso delle truppe internazionali, un’azione politica che ha messo in pericolo la vita di queste donne e bambini, dalla preoccupazione per il ritorno di un imposto ordine sociale che si rifà a principi di intolleranza nel futuro dell’Afghanistan.
Il tam tam privato che s'è diffuso. La società civile delle donne si è messa subito in moto, ogni donna partendo dalla sua realtà, chi attingendo alle proprie conoscenze, chi al proprio conto bancario, chi sollecitando, mobilitando, coordinando, chi aprendo campagne di raccolta fondi in Rete o petizioni per fare pressione ai governi. Si sono subito attivate le reti associative, delle giornaliste, delle Ong. Questo tamtam privato si è allargato fino a raggiungere media e governo. In Italia, tempestivamente le reti femminili si sono accordate e hanno chiesto di essere accolte alla Farnesina per essere messe al corrente delle azioni che il governo intendeva intraprendere a favore delle donne e dei bambini afghani.
Le testimonianze. “Dopo l’arrivo dei talebani a Kabul per due notti non ho dormito pensando a come potevo aiutare le mie sorelle afghane” A parlare è Giovanna Foglia co-fondatrice del “Trust nel nome della donna” una Fondazione che da anni aiuta le donne nel mondo a realizzare progetti e sogni che evidenziano la libertà femminile. “Ho chiamato la compagnia israeliana che gestisce la licenza commerciale del mio Airbus320 che ha accettato di metterlo a disposizione per andare a recuperare le donne e i bambini a Kabul-anche se non hanno contribuito per nulla e non mi hanno fatto nessun sconto sulle spese- poi ho cercato su internet un’associazione italiana che lavorasse in Afghanistan con progetti rivolti alle donne e ho trovato NoveOnlus".
La lista delle donne a rischio. "Le ho chiamate - ha aggiunto Giovanna Foglia - e ho spiegato cosa intendevo fare. Si sono subito attivate non solo per mettere in piedi una lista di donne afghane a rischio da far uscire dal paese ma anche con il Ministero per ottenere il permesso, assicurarsi che trovasse un aeroporto sicuro e accettasse di accogliere le profughe. Devo dire che gli italiani sono stati molto bravi. A quel punto la Nove Onlus ha iniziato i contatti con il generale a Kabul. I voli civili non erano più permessi e quindi abbiamo dovuto mettere in piedi una staffetta di voli militari che da Kabul portassero le persone in Kuwait dove le abbiamo prelevate noi con due voli, in totale abbiamo messo in salvo 254 persone, donne con bambini e i rispettivi mariti. La sera del 25 agosto avevo chiesto di poter far partire un terzo volo ma i militari hanno detto di no, ormai stava diventando troppo rischioso e partivano solo aerei militari, a ragione visto quello che è successo il giorno dopo".
"Le andremo a prendere in Iran e Pakistan". "Questo comunque non ci impedisce che fra qualche mese si possa tornare a recuperare le donne afghane nei paesi limitrofi in Iran, in Pakistan certamente coordinando l’azione con i governi. L’associazione Nove Onlus - prosegue Giovanna Foglia - è stata veramente brava e con la forza organizzativa necessaria per poter portare a compimento un’azione che è stata davvero complessa da coordinare in così poco tempo. In queste settimane, tutti i governi si sono attivati per salvaguardare i locali che avevano collaborato con loro ma il resto, quelle che vengono chiamate le attiviste- ma in realtà sono donne che si sono tolte il burka e hanno incominciato a studiare, a lavorare- quelle rimangono senza protezione e noi quelle donne abbiamo cercato di mettere in salvo. Ora vedremo come poterle aiutare nell’inserimento. Mi conforta il fatto che molte italiane si sono offerte di accogliere le donne afghane e i loro bambini”.
Le giornaliste sulle donne in Afghanistan e Yemen. Anche la giornalista Barbara Schiavulli in questi giorni è rimasta al fianco delle donne afghane così come ha fatto in questi tanti anni di reportage dall’Afghanistan. Barbara, assieme alla collega Laura Silvia Battaglia che si è occupata a lungo della guerra dimenticata in corso nello Yemen, hanno introdotto una nuova narrativa tra i reporter di guerra mettendo il focus nei loro articoli sulla vita delle donne colpite dalla guerra, e più in generale della società civile intera, raccontando le loro storie fatte sì di dolore ma anche di resilienza, di voglia di non mollare, di non soccombere alla logica annientante della guerra. In questi giorni Barbara ha collaborato attivamente con l’associazione romana NoveOnlus per creare una rete di solidarietà e riuscire a portare in salvo le tante persone che hanno collaborato con le Ong italiane. Si è adoperata per creare una lista di persone che hanno collaborato con gli occidentali, con professioni non gradita ai talebani: artiste, giornaliste, avvocate, professioniste.
Quel maledetto cancello. E’ stata una cosa molto, molto difficile: queste persone dovevano essere rintracciate, controllate, presi i documenti, comunicargli dove andare con il rischio che comunque venissero prese. Il problema era arrivare a superare quel maledetto cancello all’aeroporto, cosa che non è successa per tutti perché alcuni nel frattempo sono morti, alcune hanno avuto paura, alcuni hanno provato 3, 4 volte poi sono tornati indietro, alcuni sono stati bloccati. C'è stato un supporto generale perché poi tutti facevano la stessa cosa: far uscire più persone possibili dal paese. E’ stato difficile. Piangevamo con loro al telefono e poi piangevamo tra di noi.
Il grance lavoro delle Onlus Pangea e Nove. Devo dire che il personale di Pangea e Nove Onlus è stato veramente eccezionale non hanno mai mollato un momento. Non si mangiava, non ci si fermava mai è stato terribile però tutte sapevamo che non si poteva fare altro. E’ stato un vero e proprio esodo sono state messe in salvo 100.000 persone in 14 giorni. Ma non è finita, è finita la parte facile, ora arriva il difficile. I cervelli sono ancora tutti accesi per riuscire a capire come far uscire il resto delle persone, come creare corridoi umani fino al Pakistan. In Afghanistan ci sono ancora tutte le organizzazioni internazionali l'Unicef, la Croce Rossa, Emergency. Adesso diciamo a tutte le persone che sono rimaste: cercate di rimanere vive finché troviamo il modo per farvi uscire”.
L'operazione "fazzoletto rosso". Per questa ragione, preoccupate che una volta spenti i riflettori mediatici sull’ Afghanistan vengano dimenticate le sorti delle donne e i bambini, Nove Onlus in collaborazione con altre realtà, ha lanciato l’operazione fazzoletto rosso e invita tutti e tutte a fotografarsi con un fazzoletto rosso e a postare su tutti i social le fotografie, accompagnate all'hashtag #saveafghanwomen. La parola d'ordine è: non permettiamo che tornino ad essere invisibili.
Le donne afghane rifugiate in Pakistan. Anche il Cisda di Milano, il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane, è in prima linea dalla caduta di Kabul a Ferragosto. Dagli anni Novanta sostengono concretamente il RAWA (The Revolutionary Association of Women in Afghanistan) un gruppo di donne afghane rifugiate a Quetta in Pakistan che in semi-clandestinità in questi 20 anni e in totale clandestinità prima durante il regime crudele dei talebani, hanno costruito una rete nascosta di scuole per le bambine, rischiando la loro vita. In questi giorni le socie del Cisda e la loro presidente Gabriella Gagliardo sono state tempestate dai media e hanno rilasciato numerose interviste per documentare la situazione delle donne in Afghanistan. Sono quotidianamente impegnate in questa opera di fare chiarezza sulla realtà afghana con articoli sui social.
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