Alessia Cerantola: Parole d’ordine “innova, viaggia e collabora”


Alessia Cerantola





Nominata “Una delle tre giornaliste più innovative  in Europa”  a dirlo è niente meno che il Pointer Institute di St. Pittsburg, Florida, la scuola di giornalismo più quotata negli Stati Uniti. A soli 37 anni, ha già alle sue spalle il premio più ambito in assoluto per un giornalista: il Pulitzer. L’ha ricevuto nel 2015 come componente della squadra internazionale di giornalisti, che ha investigato sullo scandalo dei Panama Papers. Un’inchiesta unica nel suo genere, che farà la storia, premiata per dare una direzione al giornalismo del domani: 380 giornalisti sparsi in 83 paesi hanno collaborato per investigare una mole immensa di dati, riguardanti compagnie e individui, dal Giappone agli Emirati all’Italia, che hanno aperto conti offshore- i cosiddetti paradisi fiscali- per evadere le tasse. Alessia era parte della squadra giapponese assieme alla collega Scilla Alecci e con altri quattro giornalisti che hanno lavorato per l’Espresso, sono i primi giornalisti italiani, nella storia del Pulitzer, a vincerlo.
Nonostante questi successi, Alessia ancora deve giostrarsi con incarichi part-time, che vanno dall’insegnamento alle redazioni radio-tv, per far quadrare il cerchio. Gli ingaggi più succosi vengono sempre e solo dall’estero, in primis dalla BBC con cui ha una collaborazione. Come tante ragazze della sua generazione, creativa, coraggiosa, determinata, Alessia ha imparato a surfare nel mare di una professione che si va ristrutturando “che sta cambiando pelle”. Ha capito quasi subito che bisognava guardare altrove, che la soluzione non poteva venire dall’Italia e pur mantenendo qui le sue basi ha viaggiato con determinazione alla ricerca della sua strada.

Hai ricevuto nove premi finora, e uno del “Press Freedom Award” di Reporter senza frontiere, in Austria.

Si tratta  dell’inchiesta pubblicata nel 2011 sul sito del “College of Journalism” della BBC, e la motivazione del premio è stata: per avere fatto conoscere all’Europa le condizioni di sfruttamento in cui lavorano i freelance italiani da collaboratori fissi, pagati 2, 4, 8 euro ad articolo. La situazione del giornalismo in Italia è davvero singolare. Comunque dopo quest’inchiesta ho capito che non c’era futuro come freelance in Italia e ho dato alla mia carriera una svolta.

So che hai viaggiato molto, subito dopo l’esame per l’iscrizione all’Albo dei giornalisti c’è stato lo tsunami in Giappone e sei partita per andare alla centrale di Fukushima, poi hai girato anche nella zona rossa e in tutta la regione…un esperienza del tuo percorso che ricordi con piacere ?

Sono tornata a più riprese nella regione del Tohoku, quella colpita dalle devastazioni, e l’ho girata anche con un collega giapponese, ho vissuto e dormito negli stessi alloggi dove vivevano gli sfollati, e ho girato fra l’altro dei documentari per la BBC. In Giappone ho fatto il mio praticantato all’Ansa di Tokyo però forse l’esperienza che ricordo come estremamente particolare da molti punti di vista è accaduta nel 2013 negli Stati Uniti quando ho vinto una fellowship con il CSIS (Center for Strategic and International Studies). Ero la più giovane tra i borsisti, per 90 giorni ho girato nelle redazioni, nelle scuole e nei dipartimenti di giornalismo delle università alle volte facendo anche dei miei interventi. Il tutto si è svolto in modo singolare nel senso che il mio tour è iniziato a Washington, alla redazione della Columbia Review, e da lì si è spostato verso sud fino in Florida, ho attraversato tutta l’America fino alla costa del Pacifico in California e poi ancora a nord fino a tornare al punto di partenza. Questo percorso l’ho fatto tutto da sola, guidando una macchina che mi procuravano loro di volta in volta, avendo due giorni per raggiungere la mia destinazione, studiandomi i percorsi con la cartina, scrivevo alla sera la relazione o le interviste del giorno e poi al mattino via di nuovo! Uno spostamento lo feci in aereo, arrivai di notte a Tampa in Florida c’era una Dodge rossa ad aspettarmi per guidare fino ad Orlando, arrivai alle due di notte dopo aver attraversato le lunghe autostrade deserte, un’esperienza unica che porto con me. Quando arrivai in California a Santa Barbara mi trovai avvolta da una nube di cenere causata dagli incendi e dovetti guidare per ore in quelle condizioni perché avevo una tabella di marcia strettissima e non mi potevo fermare. E’ stata davvero un’avventura unica, se pensi che in Italia nemmeno guido!

Cos’è cambiato per te dopo l’esperienza  dei Panama Papers?

Ho avuto molti momenti di scoraggiamento e il Pulitzer per l’inchiesta dei Panama Papers che mi vedeva coinvolta con la squadra giapponese è arrivato, prima, come un coronamento di una serie di esperienze, e dopo, mi ha aperto nuove direzioni. Ma devo dire che già il fatto di essere stata chiamata a far parte della squadra è stato per me importante, un riconoscimento del mio lavoro. E’ stata un’esperienza interessante, formativa, dove ho imparato tanto. Era anche singolare nella sua modalità, nel senso che eravamo si una squadra, però poi lavoravi da sola. Anche quando è arrivata la notizia, via streaming che avevamo vinto il premio, io ero comodamente seduta nel divano di casa, dopo cena, con il portatile sulle ginocchia e mi sono sentita strana, perché ero tutta sola a festeggiarla senza i miei  colleghi!

Sei una giovane che crede nella collaborazione è per questo che hai fondato con altri sette colleghi la prima agenzia di giornalismo investigativo in Italia?

Si, collaborare è una delle mie parole d’ordine. Il 2011 è stato l’anno della svolta: una collega e amica carissima mi invita ad un congresso dell’IRE (Investigative Reporters & Editors) che si tiene ogni anno in una citta diversa degli USA e dove i giornalisti investigativi di tutto il mondo s’incontrano per scambiarsi informazioni sulle inchieste e le modalità di lavoro. C’è Al Jazeera, CNN, testate come il New York Times, i più grandi centri di giornalismo indipendente, come la CIJI (che ha condotto i Panama Papers). All’inizio ero molto scettica sul panorama che avevo davanti, decine e decine di giornalisti che collaboravano alla stessa inchiesta, non solo a livello nazionale ma addirittura transnazionale seguendo le tracce della criminalità, che non si ferma di certo alle frontiere. Sull’onda della grande energia di quella conferenza, partecipo a Kiev, in Ucraina ad un altro incontro internazionale con altri colleghi italiani che diventeranno poi i colleghi dell’IRPI (Investigative Reporting Project in Italy). Eravamo tutti molto euforici all’idea di mettere in piedi il primo centro investigativo in Italia, sembra incredibile ma ancora nessuno l’aveva fatto. L’abbiamo fondato in una fredda giornata di febbraio del 2012, in un coworking, mentre fuori imperversava la famosa nevicata che ha imbiancato completamente Roma, un battesimo bianco, eccezionale!

Che cosa significa esattamente giornalismo collaborativo?

Per giornalismo collaborativo intendiamo una cosa ben precisa: collaborare tutti assieme allo stesso pezzo, inchiesta, ognuno con le sue competenze all’interno della stessa squadra. Quello che abbiamo fatto all’IRPI è costruire un vero e proprio modello investigativo che prima era invece sporadico in Italia. L’IRPI nasce dalla consapevolezza che il giornalismo individuale è estremamente debole quando si tratta di un’inchiesta. Il giornalista che va sul posto raccoglie i dati, torna a casa e scrive il pezzo e il giornale glielo pubblica, è poco praticabile per tutta una serie di casistiche. Per un’inchiesta accurata è meglio affidarsi ad una rete transnazionale di giornalisti con cui collaborare, fra l’altro comporta un abbattimento dei costi.

Funziona l’IRPI?

Si, funziona. Non siamo ancora arrivati alla sostenibilità ma siamo sulla giusta strada. Prima avevamo solo finanziamenti a progetto ora invece anche finanziamenti strutturali dalle fondazioni che sostengono il giornalismo indipendente. Questo grazie al fatto che abbiamo saputo proporre delle buone inchieste che sono state finanziate e poi pubblicate, dal Guardian, ad esempio, come la truffa dei pomodori cinesi etichettati come italiani, oppure quella sul poliziotto 34enne di Padova che attirava le vittime a casa attraverso un sito di couchsurfing e poi le drogava e violentava. Ci sono voluti dodici mesi e nove paesi coinvolti per portarla a termine. Raccontiamo non solo di corruzione ma anche di ambiente e diritti umani.

Sembri avere particolarmente a cuore lo smascherare  il sistema di corruzione che ha indebolito la nostra democrazia. Avete aperto sul vostro sito, prima assoluta in Italia, una piattaforma anonima per denunciare tentativi di corruzione, IRPI-leaks, grazie ad una campagna di crowdfunding. Considerato che in Italia manca la cultura della denuncia del malaffare e il cittadino medio non si vede come “contribuente” attivo di una società più trasparente, ha dato dei risultati?

Si, devo dire di si. In questo momento sulla piattaforma raccogliamo segnalazioni e informazioni riservate su tre macro tematiche: appalti pubblici, certificazioni per impianti industriali e mafie in Gran Bretagna. Invitiamo gli addetti ai lavori e chiunque sia a conoscenza di possibili illeciti in merito di inviarci una segnalazione. La nostra piattaforma, scaricando un apposito browser, assicura l’anonimato.
Il wistleblower, cioè la talpa del sistema che ti fornisce dati o documenti che ti permettono di denunciare e quindi fermare attività criminali, illegali è di enorme importanza non solo per noi giornalisti ma per la società in primis. Spesso è l’unico modo per poter avere accesso ad un sistema corrotto. L’inchiesta sui Panama Papers è partita proprio da un whistleblower. Un sedicente “John Doe”-che potrebbe essere una donna o più persone- ha contattato due giornalisti bavaresi offrendogli i files della Mossack Fonseca, l’agenzia legale con sede a Panama che tesseva le file di questo sistema esteso. Gli stessi files erano già stati offerti ad altre famose testate che dopo averli visionati avevano declinato. I due giornalisti bavaresi hanno poi contattato il più grande centro di giornalismo investigativo, il CIJI di Washington, offrendogli di collaborare all’inchiesta e di mettere in piedi una rete internazionale di giornalisti.

In effetti penso al giudice Falcone che è riuscito a mettere in ginocchio la mafia solo dopo aver puntato sul “pentitismo” come sistema efficace per scardinarla…Tu riponi grande fiducia nello strumento del giornalismo investigativo per portare dei cambiamenti e hai dichiarato di aver voluto fondare l’IRPI per poter approfondire le tecniche investigative, com’è la situazione in Italia?

Tengo dei corsi di giornalismo investigativo nelle università, anche alla Scuola Holden di Torino, e spesso i ragazzi mi parlano di modelli di giornalismo, che vengono proposti come moderni, e per me sono invece del tutto sorpassati! Sono realtà che in Italia ignoriamo, del tutto sconosciute, le ho intercettate negli anni frequentando i congressi di giornalismo investigativo in giro per il mondo, ed è lì che mi si sono aperti gli occhi!
 “Se il giornalismo tradizionale non ha posto per te, apriti da sola una pista”. Una sfida che Alessia hai raccolto fino in fondo con coraggio e soprattutto, tanti sacrifici. Ha intravisto una strada che si poteva percorrere anche se nessuno l’aveva ancora fatto in Italia, ha creduto che il futuro fosse nel giornalismo investigativo e ha unito le forze con altri che la pensavano come lei. Un po’ visionari, un po’ per necessità, un po’ per scommessa. Dietro a tutto questo c’è una grande passione per il mestiere che si è scelto, un mestiere che se da una parte come dice Alessia “noi giornalisti in fondo siamo dei ponti, il tramite tra chi ne sa (l’esperto) e il pubblico; traghettiamo le informazioni rendendole digeribili e comprensibili al pubblicodall’altra è anche vero che c’è una passione civica, un desiderio di verità, un credere che il giornalismo ha una funzione importante nella società: “Credo che in questo momento ci sia un bisogno assoluto di giornalisti di qualità, persone formate che abbiano voglia di mettersi a fare un giornalismo di un certo tipo, quello che ti chiede di stare anche mesi senza pubblicare nulla ma che dopo tanta fatica, ti permette di uscire con un lavoro di valore”.

Commenti

Post popolari in questo blog

Intervista a Gaia Spera Lipari: abbiamo bisogno di guardarci con occhi diversi.

Giovanna Foglia